“Il primo soccorso sui luoghi di lavoro”: il documento Inail sul Primo Soccorso Aziendale

Si definisce primo soccorso aziendale “l’insieme di interventi, di manovre ed azioni messe in essere da chiunque si trovi a dover affrontare una emergenza sanitaria, in attesa dell’arrivo di personale specializzato”.

Obiettivi del primo soccorso sono:

  • riconoscere una situazione di emergenza, valutare le condizioni della vittima e attivare la catena dell’emergenza, allertando i soccorsi avanzati se necessario;
  • prestare i primi soccorsi utilizzando competenze adeguate;
  • evitare l’insorgenza di ulteriori danni causati da un mancato soccorso o da un soccorso condotto in maniera impropria.

Dati gli scopi che si prefigge, il primo soccorso sui luoghi di lavoro rappresenta uno strumento di notevole importanza per la tutela della salute dei lavoratori. Ciò spiega perché l’istituto sia disciplinato da una serie di fonti normative tra cui il D. Lgs. 81/2008 (artt. 15, 18, 25, 36, 43, 45) e il D.M. Salute 388/2003 che conferiscono al primo soccorso “un ruolo importante all’interno del sistema di gestione della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro ed obbliga il datore di lavoro a designare e formare gli addetti e ad organizzare il piano di emergenza”.

Si ricorda, inoltre, che l’organizzazione del primo soccorso “rientra nelle misure generali di tutela (art.15 D. Lgs. 81/2008) e si inscrive all’interno del più ampio capitolo della gestione delle emergenze (Sezione VI D. Lgs. 81/2008) insieme ad altre misure quali prevenzione incendi e lotta antincendio, evacuazione dei luoghi di lavoro in caso di pericolo grave e immediato, salvataggio”.

Questo, a grandi linee, il quadro normativo di riferimento del primo soccorso aziendale al quale si aggiunge un prezioso contributo da parte dell’Inail e precisamente da parte del Dipartimento di medicina, epidemiologia, igiene del lavoro e ambientale (DIMEILA) del predetto ente previdenziale. Difatti il Dipartimento ha di recente realizzato e presentato un documento dal titolo “Il primo soccorso nei luoghi di lavoro”, pensato – afferma il Direttore del DIMELIA Sergio Iavicoli – “come strumento didattico a supporto sia dei lavoratori addetti al primo soccorso per una immediata consultazione, sia per i formatori”.

Il manuale si struttura in due parti ma non può ritenersi sostitutivo di un corso di formazione che preveda delle esercitazioni pratiche, così come definito dall’art. 45 del D. Lgs. 81/2008 e dal D.M. Salute 388/2003 ed è, quindi, utilizzabile come supporto didattico.

La prima parte della pubblicazione raccoglie informazioni per l’organizzazione di un efficace sistema di primo soccorso aziendale ed è “rivolta anche ai datori di lavoro ed ai responsabili del servizio di prevenzione e protezione”.

La seconda parte – “più specifica ed operativa” – descrive invece le manovre di primo soccorso orientate a salvare la vita dell’infortunato ed a limitare i danni dovuti ad incidenti o comunque ad eventi pregiudizievoli.

Finalità della pubblicazione è, in definitiva, proporre il primo soccorso aziendale non più solo come un intervento di riparazione, ma come un processo integrato nel sistema di prevenzione e riduzione degli infortuni.

Di seguito l’indice del documento:

 

La gestione del primo soccorso nei luoghi di lavoro

Il primo soccorso nei luoghi di lavoro

Organizzazione del primo soccorso

La valutazione del rischio e la classificazione aziendale

Designazione e nomina degli addetti

Formazione degli addetti al primo soccorso

Attrezzature e dispositivi di primo soccorso

Piano di primo soccorso

Informazione dei lavoratori

Cenni di anatomia e fisiologia

Cenni generali

Apparato cardiocircolatorio

Apparato respiratorio

Apparato muscolo-scheletrico

Sistema nervoso

Occhio

Cute

 

Supporto vitale di base e defibrillazione precoce

La morte cardiaca improvvisa

La catena della sopravvivenza

La sequenza di BLSD nell’adulto

Ostruzione da corpo estraneo nell’adulto

 

Il supporto vitale nel traumatizzato

Il trauma in ambiente di lavoro

La catena della sopravvivenza nel trauma

La valutazione dello scenario: identificare i pericoli e agire in sicurezza

La valutazione del lavoratore infortunato

Mobilizzazione del traumatizzato

Presidi per l’immobilizzazione e il trasporto

Principali patologie presenti in caso di infortunio

Lesioni a carico dell’apparato locomotore

Le ferite

Le emorragie

Folgorazione

Lesioni da caldo e da freddo

Lavori in quota

Ambienti confinati o sospetti di inquinamento

 

Altri interventi di primo soccorso

Sincope e lipotimia

Shock

Edema polmonare acuto

Dolore acuto stenocardico

Epilessia

Crisi asmatica

Reazioni allergiche

Shock anafilattico

Punture e morsi di animali

Traumi oculari

Intossicazione da agenti chimici

 

Cos’è e come si struttura la procedura di Gestione del Rischio Clinico

In generale, il Risk Management può definirsi come una procedura volta all’analisi, valutazione ed identificazione dei rischi d’impresa e delle contromisure più idonee a scongiurarli.  Il rischio considerato (risk) è identificato in relazione ad una potenziale perdita (loss) che l’impresa potrebbe subire a causa di un evento avverso, mentre gli aspetti gestionali (management) attengono al rapporto ipotizzabile tra rischio ed eventuale perdita.

 

Gestione del rischio clinico

Nello specifico, il Risk Management in sanità o Gestione del rischio clinico è l’analisi che concerne l’attività intrinsecamente rischiosa delle strutture sanitarie e trova le sue origini negli Stati Uniti. Scopo primario della Gestione del Rischio clinico è disincentivare i pazienti vittime di “incidenti clinici” (cioè non previsti e che possono verificarsi nel corso dei trattamenti terapeutici) dal ricorrere in sede legale avverso la struttura sanitaria e il suo personale medico ed infermieristico.

Strategie e metodologie che minimizzano il rischio

Per raggiungere tale obiettivo è dunque necessario che si utilizzino strategie e metodologie che minimizzano il rischio (USF Center for Leadership Public Health Practice), di una possibile “Loss” (perdita), in termini di:

  • injury
  • damage
  • harm

il che suggerisce un’ampia gamma di potenziali “perdite”, non necessariamente legate soltanto a danni all’integrità somato – psichica del paziente, ma anche a pregiudizi di tipo economico.

Loss prevention

A tale riguardo, si parla di “Loss Prevention” per indicare l’insieme delle procedure di identificazione del rischio di:

  • perdite economiche conseguenti ad azioni legali e reclami
  • danni ad attrezzature o immobili
  • incidenti, lesioni, malattie o morte di persone
  • un danno dell’immagine aziendale o della reputazione professionale.

Procedure di Risk Management in sanità

Le procedure di Risk Management in sanità sono solitamente impiegate per scongiurare il verificarsi delle sopra citate perdite e presentano numerosi vantaggi (Australia – New Zealand Standard Risk Management) consistenti, ad esempio, in:

  • una maggiore efficacia della programmazione
  • un’efficiente ed efficace erogazione delle prestazioni
  • un’efficiente ed efficace allocazione delle risorse
  • un elevato standard delle prestazioni, orientate al cliente
  • un elevato standard di responsabilità nell’organizzazione
  • creatività e innovazione organizzativa
  • miglioramento della capacità competitiva
  • miglioramento del morale dell’organizzazione
  • flessibilità nella gestione degli obiettivi
  • trasparenza del “decision making”.

Risk Management: le 4 fasi

La procedura di Risk Management in sanità si scompone in 4 fasi poste in sequenza logica e cronologica:

  1. l’identificazione dei rischi (Risk Identification)
  2. l’analisi dei rischi (Risk Analysis)
  3. il controllo delle possibili perdite (Risk Control)
  4. la copertura finanziaria (Risk Financing)

1- Risk Identification

È il processo mediante il quale si identificano situazioni, comportamenti e procedure che possono condurre ad una “Loss”. Le fonti della Risk Identification sono numerose; tra le più rilevanti si segnalano:

  • la sicurezza degli ambienti e delle attrezzature
  • i percorsi per il controllo delle infezioni
  • i programmi di miglioramento della qualità e le procedure di accreditamento
  • la sorveglianza del grado di soddisfazione e dei reclami dei dipendenti e degli utenti
  • gli eventi avversi: casistica inerente la colpa professionale, infortuni sul lavoro, infortuni degli utenti e dei visitatori, risarcimento del danno ecc.
  • il Management e la Leadership.

L’approccio si basa sul presupposto che ogni errore è la conseguenza di problemi che potrebbero manifestarsi ancora prima che si realizzi l’evento avverso. Ciò significa che, per minimizzare gli errori, è preferibile cercare soluzioni nel sistema (classicamente inteso come insieme di soggetti, tra loro correlati, che agiscono in un contesto finalizzato a raggiungere determinati risultati).

Evento avverso

L’evento avverso è infatti spesso preceduto da eventi sentinella ovvero da evenienze che si manifestano in modo assolutamente inatteso, ma che costituiscono momenti rivelatori di gravi criticità del sistema. A titolo esemplificativo, l’”Australian Council of Safety and Quality Department of Health” (DHS 2002 – 2003) ha catalogato i seguenti dieci principali “eventi sentinella”:

  • procedure chirurgiche eseguite su parti anatomiche o pazienti sbagliati
  • la ritenzione, in regione oggetto di intervento chirurgico, di strumenti o materiali vari, che richiede un re-intervento o – comunque – ulteriori procedure chirurgiche; danni neurologici riconducibili ad anestesia spinale
  • l’ipossia cerebrale in corso di anestesia, o di tecniche di ventilazione
  • la morte del paziente per inadeguata somministrazione di farmaci
  • l’embolia gassosa mortale, o determinante un danno neurologico
  • le reazioni emolitiche da incompatibilità trasfusionale tra donatore e ricevente
  • la morte, o un danno severo, di una donna gravida, associata al travaglio di parto o al parto
  • il suicidio del paziente ospedalizzato
  • la dimissione di un neonato, con affidamento (sic!) ad una famiglia sbagliata.

Gli eventi sentinella sono relativamente infrequenti, anche se sovente riflettono deficienze del sistema o di alcuni processi; il che giustifica l’assoluta necessità che siano segnalati. La rilevazione degli eventi sentinella è altresì utile per la identificazione di possibili fonti di rischio che caratterizzano sistemi appartenenti a strutture diverse. Questo approccio tende a focalizzare l’attenzione all’organizzazione piuttosto che a colpevolizzare i singoli attori del sistema. È la stessa filosofia che anima l’Incident Reporting ovvero una modalità standardizzata di segnalazione di eventi indesiderati, finalizzata a rilevare criticità del sistema o di alcune procedure.

Organizzazioni estranee al settore sanitario (basti ricordare l’”Aviation Safety Reporting System” redatto oltre 20 anni or sono dal “NASA’s Ames Research”) hanno sviluppato con successo sistemi di segnalazione di eventi avversi. E’ però necessario fin d’ora sottolineare che qualsiasi sistema di segnalazione non può fornire dati epidemiologici esatti.

La segnalazione può interessare:

  • gli “adverse events”: eventi avversi di qualsiasi natura e gravità, che causano la morte, una malattia, una menomazione, una disabilità, ma anche solo una sofferenza transitoria (ad esempio, una reazione anafilattica alla penicillina)
  • i “no harm events”: eventi che, pur espressione di un possibile errore o criticità, non ha comportato danni al paziente (ad esempio, la somministrazione di una cefalosporina a un paziente con storia di anafilassi alla penicillina, senza che ne sia seguita alcuna reazione allergica)
  • i “near misses”: incidenti potenziali, che non si verificano per mera casualità (ad esempio, la rilevazione di un errore di prescrizione di un farmaco, prima che sia somministrato al paziente).

In particolare, i near misses rappresentano avvenimenti che, se reiterati, potrebbero essere causa di un evento avverso che tuttavia non si realizza poiché interrotto dal caso fortuito. Ad esempio, è un “near miss” la preparazione – sul tavolo operatorio – dell’arto controlaterale a quella sede della patologia per la quale è stato disposto l’atto chirurgico; l’identificazione dell’errore, prima dell’inizio della procedura chirurgica, impedisce il verificarsi di una lesione al paziente.

2- Risk Analysis

Alla fase dell’identificazione segue quella dell’analisi dei rischi (Risk Analysis). I metodi mediante i quali possono essere studiati sia i rischi identificati sia le cause degli eventi avversi, o – in ogni caso – indesiderati, sono numerosi. E’ tuttavia doveroso ricordare innanzi tutto:

  • la Root Cause Analysis
  • la mappa delle aree critiche.

Root Cause Analysis

Una volta disponibili i dati provenienti dall’incident reporting, si deve procedere ad un’analisi delle cause. Una delle procedure attualmente in uso a tale scopo è la “Root Cause Analysis” (RCA). La RCA, utilizzata per studiare “adverse events”, “no harm events” e “near misses”, si focalizza prioritariamente sul sistema e sui processi. L’analisi affonda la ricerca (“drilling down”) sulla base dei seguenti quesiti:

  1. cosa è accaduto?
  2. come è accaduto?
  3. perché è accaduto?

Nondimeno, per essere completa ed efficace, la RCA deve includere:

  1. la determinazione di tutti i fattori umani, o i processi, direttamente associati all’evento (è da ricordare, in proposito, che un evento indesiderato difficilmente riconosce un’unica causa)
  2. la visualizzazione delle criticità sottostanti l’evento, ponendosi una serie adeguata di “perché”
  3. l’identificazione dei rischi e del loro potenziale contributo al realizzarsi dell’evento, che sia un danno al paziente, o anche solo un “close call” (rischio evitato)
  4. suggerimenti circa le azioni da intraprendere, per migliorare i processi e ridurre la probabilità del verificarsi di nuovi eventi indesiderati.

La mappa delle aree critiche

Oltre alla Root Cause Analysis, altre procedure possono avere analoghe finalità. La mappa delle aree critiche, ad esempio, consiste in una mappa delle criticità che riguardano tutta l’organizzazione sanitaria aziendale. Una mappa dei rischi può essere costruita utilizzando varie modalità, in funzione delle esigenze della ricerca. Una prima possibilità è la costruzione della mappa sulla base degli eventi avversi che si sono verificati in un determinato lasso di tempo (in tal caso appare più appropriato utilizzare il termine “mappa delle criticità”). Carroll suggerisce di costruire la mappa sulla base della frequenza e della gravità degli eventi avversi. Tuttavia, anziché considerare la gravità e la frequenza degli eventi, è possibile costruire la mappa delle criticità sulla base della frequenza e del grado di responsabilità.

3- Risk Control

Si giunge poi alla fase di controllo dei rischi (Risk Control), fondata in primo luogo su un’azione formativa di tutti coloro che prestano la propria attività nei servizi sanitari. Tale azione si concretizza nell’acquisizione di tutte le conoscenze circa le potenziali minacce, le aree di maggiore criticità, gli eventi indesiderati ipotizzabili. La formazione dei dipendenti si focalizza sulla gestione del rischio attraverso tutti gli aspetti che lo definiscono:

  • informazione e consenso
  • verifica delle cartelle cliniche;
  • verifica delle SDO
  • gestione dei conflitti e del contenzioso
  • segnalazione di eventi indesiderati
  • aspetti penalistici, civilistici e assicurativi, nonché finanziari.

In ogni caso, gli obiettivi da perseguire per un’adeguata strategia di gestione del rischio clinico sono:

acquisire conoscenza sulla definizione di rischio

  • conoscere la classificazione degli eventi avversi
  • imparare la mappatura dei rischi
  • imparare a monitorare proattivamente gli eventi a rischio
  • imparare a collaborare circa le modalità di segnalazione degli eventi avversi
  • imparare a interpretare i dati di rischio
  • imparare a identificare i correttivi organizzativi, clinici e comunicazionali
  • applicare un piano di gestione del rischio nella propria realtà operativa.

4- Risk Financing

Cenni, infine, sono dedicati alla copertura finanziaria (Risk Financing). Il Risk Financing è un piano di management che identifica e quantifica i fondi necessari all’organizzazione per far fronte a una qualsiasi “Loss”; il che significa che tale strumento rientra nelle consuete procedure di budget.

Il diritto alla privacy in condominio. Come tutelarlo?

Diritto alla privacy in condominio, è possibile tutelarlo?

Il Condominio non è altro che una particolare ipotesi di comunione di spazi da parte di una molteplicità di persone. La convivenza forzata che il condominio instaura, però, pone il problema di tutelare la riservatezza e la privacy in condominio e di bilanciare tali esigenze con ulteriori interessi in gioco. In prima battuta, vediamo come la tutela della privacy dei condomini passi attraverso la nomina dell’amministratore condominiale quale responsabile del trattamento dei dati personali. La decisione in oggetto spetta all’assemblea del condominio nella consapevolezza che l’amministratore può trattare solo le informazioni personali di ciascun condomino che siano pertinenti e non eccedenti le finalità di gestione e amministrazione del Condominio. Tra questi rientrano sicuramente i dati anagrafici, mentre i dati sanitari non sono normalmente dati utilizzabili dall’amministratore a meno che non siano indispensabili ai fini della gestione del Condominio (come nel caso di adozione di delibera di abbattimento di barriere architettoniche).

Sul versante opposto della trasparenza, invece, si fa obbligo all’amministratore di comunicare ai condomini i propri dati anagrafici e professionali (generalità, domicilio, recapiti anche telefonici). Ciascun condomino (o partecipante alla vita condominiale come il locatore) può inoltre accedere ai propri dati detenuti dal Condominio, in conformità a quanto stabilito dalle leggi vigenti. In base alle norme del Codice Civile, ad esempio, il condomino può ricevere informazioni sulle spese e sugli inadempimenti degli altri condomini senza il consenso degli interessati. Queste informazioni – ottenute mediante visione del rendiconto generale o dietro espressa richiesta all’amministratore – non possono essere divulgate a terzi e pertanto ne è esclusa l’affissione sulle bacheche condominiali (che sono necessariamente esposte anche terzi non condomini), a meno che ciò non sia necessario per la tutela di propri diritti in giudizio.

Va ricordato, infatti, che sulle bacheche condominiali possono essere affissi solo avvisi di carattere generale e non le comunicazioni relative a singoli condomini e, in particolare, gli avvisi sulle morosità. Le morosità possono però essere discusse in seno alle assemblee a cui partecipino soltanto i condomini e i dati degli inquilini morosi devono essere comunicati ai creditori non soddisfatti dall’amministratore (in quest’ultimo senso dispone la riforma del condominio del 2012).

Privacy di condominio e trasparenza si scontrano anche sul terreno delle telecamere di sorveglianza. Come noto, il Condominio può installare un sistema di videosorveglianza a seguito di una delibera assembleare adottata con un numero di voti favorevoli pari alla maggioranza degli intervenuti e rappresentativi di almeno la metà dei millesimi. L’installazione di questi impianti è consentita solo allo scopo di tutelare persone e beni da concrete situazioni di pericolo (di norma costituiti da illeciti già verificatisi) oppure nel caso di svolgimento di attività che comportano la custodia di denaro o altri beni.  Una volta installato, il sistema di telecamere per il controllo delle aree comuni è soggetto alle norme in materia di protezione dei dati personali. Ciò comporta che:

  • le telecamere vanno segnalate con gli appositi cartelli (informativa) che esplicitano le finalità delle riprese;
  • le registrazioni vanno conservate per un periodo limitato (24-48 ore, comunque non oltre 7 giorni nel qual caso occorre la verifica preliminare del Garante);
  • le telecamere devono essere rivolte esclusivamente sulle aree comuni (accessi, garage) evitando i luoghi circostanti (strada, esercizi commerciali);
  • le registrazioni devono essere protette in modo che solo le persone autorizzate possano accedervi.

Anche il singolo condomino può installare telecamere (o videocitofoni) purché ciò avvenga per fini personali e l’angolo delle riprese sia limitato agli spazi di propria esclusiva pertinenza. E’ cioè vietata la ripresa di immagini relative ad aree comuni (cortili, pianerottoli, scale, garage comuni) ovvero ad ambiti antistanti l’abitazione di altri condomini. In questo caso non si applicano le norme in materia di protezione dei dati personali, ma devono comunque essere adottate cautele (come appunto limitare l’angolo delle riprese agli spazi di propria esclusiva pertinenza) per evitare di incorrere nel reato di interferenze illecite nella vita privata (art. 615 bis c.p.), come precisato anche dalla Corte di Cassazione nel 2012. In merito, il Garante Privacy ha chiarito che per domicilio del condomino si devono intendere anche le aree comuni, scontrandosi con l’orientamento maggioritario della giurisprudenza che esclude suddetti spazi dal concetto di domicilio e pertinenze.

 

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